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MADNESS
(Riflessioni del Profeta sull’uscita di
“Wonderful”, CD, Virgin, Inghilterra, 1999)
I Madness sono
(finalmente) tornati!
(...e finalmente ne scrivo!). Bando
alla retorica: di tutto il periodo Two Tone il fenomeno più
esplosivo furono i Madness. Per varie
ragioni. Innanzitutto, perché furono la formazione di
maggior successo (e non fu certo un caso); ma non
secondariamente perché furono i più creativi e particolari con
quel loro distintivo “nutty sound” e, infine, perché
riuscirono a raggiungere il cuore di una fascia d’età che
andava dalle medie all’università raccontando brillantemente
un’Inghilterra ed uno stile di vita.
Nasceva o, meglio, rinasceva, coi Madness e gli Specials
quali principali cantori, lo ska come credo musicale, come
immagine, come stile di vita: quello del Rude Boy. No, non
si trattava certo dei famigerati giovani rapinatori e piccoli
gangster del quartiere “Kingston 11” in Giamaica, ma di una
vera e propria moda che vide giovani e meno giovani svestire
gli stracci chiodati e le multicolori acconciature punk per un
elegante completo a tre bottoni, con cravatta nera e rigorosa
camicia bianca, con ai piedi i (o le) Dr. Martens, le scarpe
con la “cushion sole” che era stata pure sulla luna! Si
aggiungevano, al colpo d’occhio, basette, una pettinatura
decisamente skinhead, parka e/o “bomber”, il tipico pork pie
hat e, quali mezzi di locomozione, vespe e lambrette e, per
l’estate, bretella e Fred Perry, cosicché difficilmente ti
saresti accorto se avevi di fronte un Mod, uno Skinhead ’69 o,
più semplicemente, uno “Ska”. Tutto ciò non escludeva che
scoppiassero furibonde risse tra gli stessi 3 gruppi ora
menzionati o tra loro e le altre “sottoculture” giovanili che
affollavano il finire dei ’70 e l’inizio degli ’80 in Europa
come i Punk, i Boneheads (oggi “naziskin”), Metallari, Rockers
o i Rockabilly e - perché no? – i Paninari.
I Madness, dopo un esordio
non certo brillante con una formazione parzialmente diversa,
gli Invaders, decidono di chiamarsi così dal titolo della
canzone di Prince Buster “Madness” del 1963. I Madness, ovvero – come si presentarono sul loro primo
album (il mitico “One Step Beyond…”) - Mike Barson (Monsieur
Barso) alla tastiera, Chris Foreman (Chrissy Boy) alla
chitarra, Suggs (Graham Mc Pherson) la voce, Mark Bedford
(Bedders) al basso, Lee “kix” Thompson ai sax baritono e
tenore e voce, Woody Woods Woodgate (Dan Woodgate) batteria e
percussioni e, infine, Chas Smash, cori, vari urli e
divertenti passi di danza, devono parte del successo ai loro
colleghi degli Specials. Jerry Dammers, il tastierista
sdentato e geniale di qust’ultimo gruppo, era infatti riuscito
a strappare un bel contrattino con la Chrysalis per poter
gestire direttamente la propria etichetta “Two Tone”.
Dopo l’uscita del primo 45 giri per
detta etichetta, corredato di busta in bianco e nero sulla
quale campeggia l’inconfondibile omino realizzato dallo stesso
Dammers come stilizzazione della famosa foto di Peter Tosh
(Touch) degli anni ’60 e contraddistinto da lato “A” e lato
“AA” ai quali corrispondono “Gangsters” degli Specials e “The
Selecter” dei Selecter
appunto (ed anche se, all’epoca della registrazione, il gruppo
era “virtuale”), dopo l’uscita di questo singolo, dicevo, agli
attenti osservatori non sfuggì che quella era musica – appunto
- speciale, e che decisamente, stava per succedere qualcosa di
nuovo sul mercato musicale. Il disco, insomma,
caratterizzato da quel ritmo decisamente inusuale ebbe subito
un inaspettato successo ed i Madness, anche loro di
Londra, riconoscendosi in quel medesimo stile musicale,
realizzarono, così, per la neonata Two Tone il loro primo 45
giri: “The Prince”, era il 10 agosto del 1979 e “The Prince” è
un tributo a Prince Buster ritmicamente ispirato alla sua
“Earthquake”. Quindi, sulla “miccia” appena accesa dello
Ska, i Madness si
piazzarono, per puro caso, in una posizione temporalmente
felice e favorevole: non aveva neppure incominciato a sopirsi
l’interesse suscitato da “Gangsters” (tanto per la cronaca
anch’essa tratta da un originale di Prince Buster intitolato
“Al Capone”) che esce quell’inno celebrativo proprio del
Prince: “Bust - er he sold the heat with a rock stea - dy beat
__” che permetterà letteralmente ai Madness di cavalcare
l’onda al momento giusto. A seguito dell’immediato successo
di “The Prince”, infatti, i Madness sottoscrivono
subito un contratto con la Stiff Records per la quale usciva,
quello stesso ottobre, l’Ellepì “One Step Beyond” con annesso
il famoso singolo che entrerà in tutte le classifiche europee
e che, guarda caso, è la cover di un altro strumentale di
Prince Busters del 1963 (il lato “B” del 45 “Al
Capone”).
Di quell’album non sono solo quelle
appena citate le sole canzoni ad essere entrate nelle
classifiche di molti Paesi: in Francia, per esempio, il Natale
’79 se lo ricordano per il singolo “My Girl”;
e, per molti di quelli che già c’erano,
l’estate del 1980 ha come colonna sonora (tra le altre) “Night
Boat To Cairo”, opportunamente “pompata” dalle case
discografiche con l’uscita apposita del’E.P. “Work Rest And
Play”, qui in Italia pubblicato con la versione in italiano di
“One Step Beyond…” (“Un Passo Avanti…”).
E chi non ha presente la versione ska
di “Swan Lake” (pochi anni prima era stata la discomusic a
riproporre, in versione “disco”, famosi motivi di musica
classica) o l’emblematica “Bad & Breakfast Man”? I
suoni non sono certo quelli dello ska giamaicano, raramente la
batteria lo è, ma l’effetto è lo stesso: musica danzabilissima
e strana, allegra ed alle volte inquietante, di sicuro un po’
folle e così particolare da convincere tutto il Mondo che
fosse una moderna elaborazione del Reggae.
In particolare, la stranezza dei Madness è dovuta ai riff
saltellanti di Barson, parte alla voce di Suggs, parte ad
arrangiamenti e melodie dichiaratamente ispirate al lavoro del
leggendario e recentemente scomparso Ian Dury del quale i Madness sono stati
ammiratori ed amici. Musicalmente i Madness, sin dal loro
esordio, non denotano particolare simpatia per chitarre
distorte e ritmi pestati, creano brani piuttosto differenti
tra loro, inventano “grooves” su cui cantano per lo più il
quotidiano (londinese), usando sempre immagini efficaci.
Spesso sono drammatici con ironia e, nell’inoltrarsi nella
metà degli anni ’80, tratteranno sempre più spesso temi
sociali, mentre musicalmente tenderanno ad accentuare una
certa loro malinconia congenita cantata quasi sempre con toni
gentili ma abbandonando quasi del tutto le ritmiche degli
esordi. Intelligentissimi nello sfruttare velocemente la
notorietà raggiunta, per aumentarla ancora di più, i Madness, molto prolifici,
agli inizi di settembre del 1980, sfornano il loro secondo
album: “Absolutely”.
“Absolutely” è il disco che promuove i
Madness nell’Olimpo
delle super star: chi si era entusiasmato per il primo, trovò
“Absolutely” eccezionale, e chi, invece, non si era ancora
pronunciato dovette ammettere che i Madness erano veramente
speciali. Dal vivo, poi, erano (e sono ancora)
grandiosi. Non si sarebbe potuto pensare diversamente
ascoltando “Embarassment”, “Baggy Trausers” o “The Return Of
The Los Palmas 7”, accompagnate, tutte, da divertentissimi
video in cui i Madness
esprimono sempre di più la loro totale follia (il video di
“Baggy Trausers” vanta Lee Thompson quale primo sassofonista
volante della storia dei videoclip!); ma bastano anche solo
alcune delle meno conosciute di quel disco tipo “In The Rain”
e le bellissime “You Said” e “Disappear” per pensare ai Madness come ad una delle
migliori formazioni musicali di quegli anni: pregno di ska, i
Madness avevano creato
il loro particolarissimo Nutty Sound!
Sarà durante la primavera del 1981 che
il fenomeno Madness imperverserà globalmente: registrano il
godibilissimo film autobiografico “Take It Or Live It” e
registrano, pure, il loro ottavo singolo, un reggae
particolarissimo accompagnato da un video più inquietante che
comico dal titolo "Gray Day". Si trattava, in realtà, non di
un nuovo pezzo ma di una canzone che era nella scaletta dei Madness sin dai loro
primi esordi. Fatto ciò, partono per un tour degli antipodi
che li vedrà acclamati da centinaia di migliaia di persone in
Australia, Nuova Zelanda e Giappone. Puntuali come al
solito i Madness
pubblicano, nell’autunno di quel 1981, il loro terzo album
(preannunciato dall’uscita del singolo “Shut Up” sempre con
video geniale al seguito) dal titolo “Seven” che - zacchete! -
schizza subito alla posizione n.° 9!
Chi li aveva seguiti fin lì non poteva
restare che soddisfatto fin dalla prima traccia di “Seven”,
infatti, “Cardiac Arrest”, al di là del testo drammatico con
ironia, è uno dei brani in assoluto più divertenti che i
Madness abbiano fatto; non è proprio “ska” pur essendo
naturalmente saltellante, ma ciò non stupisce non essendolo
affatto neppure l’appena citata “Shut Up”, che segue
sull’album. Sono proprio le canzoni non ska che
sottolineano la bravura dei Madness nel creare nuovi e
saltellanti ritmi: “Sign Of The Times”, l’onirica “Missing
You”, la caraibica “Mrs Hutichinson”. Altre, tra cui
“Tomorrows Dream” - uno dei brani che mi piacciono di più e
che prendo ad esempio emblematico del “white” reggae elaborato
da Suggs & amici, da contrapporsi a quello dei Police -
indicano una decisa sterzata reggae per i Madness (forse a fronte
del successo ancora più vasto che stavano avendo nel frattempo
gli UB40?). Anche
“Gray Day” è, come detto sopra, un reggae, onirico e cattivo,
sulla stessa scia di “The Opium Eaters” che è invece
l’immancabile e particolare strumentale. In “Seven” anche
“Day On The Town” è un reggae piuttosto sognante con tastiera
“classica”, piano e notevole passaggio dub fino allo sfumare.
La più ska di tutto l’elleppì “Seven” anzi, l’unica
veramente “ska”, è “Promises Promises” una vera iniezione
d’energia. A novembre i Madness pubblicano un
altro singolo, inedito, una cover di “It Must Be Love” del
cantante di colore Labi Siffre. Si tratta del decimo singolo
per i nostri Madness
ed è – ancora - un reggae madness style con divertentissimo
video d’accompagnamento!
Con la successiva primavera, tanto per
non far stare a digiuno i fan per la successiva estate, ecco
uscire, a fine aprile, la prima compilation dei Madness, opportunamente
intitolata “Complete Madness” e contenente tutti i singoli già
usciti e 2 altre nuove tracce: “In The City” (fatta apposta
dai Madness per la
pubblicità di un’auto giapponese, la Honda “City”) ed il
capolavoro ska assoluto dei Madness a mio
modestissimo parere e personalissimo gusto: “House Of Fun”.
Non è un caso che il relativo singolo entrerà in classifica
direttamente al numero 8 per raggiungere (incredibilmente per
la prima volta nella storia del gruppo!) la vetta, solo una
settimana dopo. Era la metà del maggio 1982 ed in quello
stesso periodo esce la videocassetta “Complete Madness”
contenente tutti i videoclips fino ad allora interpretati dai
beniamini di ormai un vastissimo pubblico e che, manco a
dirlo, entra “in battuta” al primo posto delle vendite di
videocassette. E’ quello che si dice un successo
sfacciato, ma senza dubbio meritato e, riguardando la
videocassetta, si rimane stupiti per la serie di idee geniali
sviluppate dal gruppo. I Madness, quindi, si
godevano contemporaneamente il 1° posto negli album, nei
singoli e nelle video! Instancabili, agli inizi del
novembre ’82, i Madness arrivano sui
banconi dei negozi di dischi con il loro 4° (o 5°, se si
considera Complete) album “The Rise & Fall”.
Questo è l’album musicalmente più
complesso di Barson & C. “Our House” e “Tomorrow’s
Just Another Day” sono, di quel disco, i brani di maggior
successo commerciale, ma ci sono anche “Calling Cards”, “That
Face”, “Mr. Speaker Gets The Word” e “Tip Toes” nelle quali è
sempre presente, benché “lontana” l’influenza ska; l’ultima
traccia del disco, poi, è “Madness (It’s All In The Mind)” uno
swing/R&B che ricorda i primi shuffle giamaicani. Credo
sia il disco dei Madness dal quale sono
stati tratti meno singoli. Sono tracce forse troppo
elaborate come “Are You Coming (With Me)” o poco ballabili
come la stessa title track ad avere fatto desistere dagli
acquisti i fan “modaioli” che, data per finita l’epoca ska,
già indirizzavano i loro interessi ai Duran Duran od ai Frankie
Goes To Hollywood! Resta il fatto che, quanto a stranezza
creativa, canzoni come “Primrose Hill” non hanno eguali.
Il 1983 si conclude per i Madness con l’uscita di
un nuovo singolo dal titolo “Wings Of A Dove”, fortunato in
classifica inglese, accompagnato dal solito fuorissimo video
(senz’altro uno dei più divertenti), seguito, a breve
distanza, da “The Sun And The Rain”, altro 45 e video, se
possibile, ancora più divertente del precedente ed entrambi
preannuncianti l’uscita del loro 5° album “Keep Moving”, era
da poco iniziato il 1984.
In Italia di tale album non si
parlerà, ma verranno tratti altri due singoli, anch’essi con
relativo video al seguito, “Michael Caine” e la bellissima
“One Better Day”. Altri brani di pregio sono “Brand New Beat”
e “Samantha” ma, eccetto l’allegrissima “Wings Of A Dove” (non
è quella giamaicana, alla quale qualche rude, forse, sta
pensando), “Keep Moving” è un disco nostalgico e melanconico.
I Madness non sono
più quelli dei primi 3 dischi e dallo ska e, tramite la
parentesi di “Rise & Fall”, diventano esponenti del
miglior british pop di quell’epoca, alla pari con gente come
Elvis Costello, The Kinks o The Small Faces. Nel frattempo –
purtroppo - perdono anche un membro che si sarebbe detto
essenziale per l’esistenza stessa dei Madness: Sir Barson esce
dal gruppo.
L’anno successivo, esce il sesto album
- il primo senza Barson - ironicamente intitolato “Mad Not
Mad”, del quale memorabili restano la bellissima “Yesterday
Man” e la cover reggae di “Sweetest Girl”. Non si ha
immediata percezione dell’assenza di Mr. Barson forse perché,
nell’insieme, è perfettamente confermata la linea musicale
intrapresa con Barson in “Keep Moving”. Anche i due
geniali produttori di sempre, ovvero Clive Langer ed Alan
Winstanley ebbero il loro peso, probabilmente, se i Madness non sembrano aver
accusato il colpo della fuoriuscita di Barson. Il reggae
“Tears You Can’t Hide” e “Time” dimostrano un brillante
capacità creativa dei restanti 6! Ma non posso non rilevare
che “Mad Not Mad” è il primo album in cui non c’è alcuno
strumentale. Tanto per la cronaca (rigorosamente “ska”),
il singolo “Yesterday Man” vanta come lato “B”, la penultima -
a mio sapere - apparizione discografica di Jerry Dammers, al
giusto posto con la sua tastiera skanchettosa nel brano “All I
Knew”.
Diventa infine tempo per la seconda
compilation che, intitolata “Utter Madness”, raccoglie tutte
le hit degli ultimi 4 album più la splendida e stranissima
“Driving In My Car” uscita solo in 45 nell’estate dell’82
(lato “B” “Animal Farm”) e “Waiting For The Ghost Train” una
canzone degna dei Madness quando erano 7 con immancabile,
divertentissimo video (un altro dei più belli) da raccogliere
nella meritevole videocassetta dal titolo “Utter
Madness”. Da qui in poi (è il 1986) – strana la vita, si
dirà – l’oblio coglie i Madness (o i Madness colgono
l’oblio?). Non lo so, improvviso: crisi creativa di tutti
gli elementi del gruppo? Disinteresse della casa discografica
madre e padrona? Totale disinteresse del pubblico? Troppo
pochi incassi a fronte di grossi investimenti pubblicitari?
Scazzi coi produttori? Boh! E’ certo solo che “Utter
Madness” è l’ultimo disco dei Madness prodotto
dall’accoppiata che, fino ad allora, li aveva seguiti, i prima
citati Clive Langer e Alan Winstantley. Dopo 2 anni di
totale (per quel che mi è noto) assenza dalla scena, i Madness si ripresentano
(in Italia senza alcuna promozione) con “The Madness” un disco
di cui odio parlare perché ho dovuto riascoltarlo per
scriverne.
Innanzitutto: erano ancora i Madness? Domanda che
trova la sua spiegazione (ma non la risposta, che non so) nel
fatto che il gruppo accreditato è The Madness, con un articolo
determinativo che il gruppo originario non ha mai
avuto! Degli originali membri della band ci sono, o
appaiono, solo Carl Cathal J. P. “Chas Smash” Smyth, Chris
Foreman, il vecchio “Suggs” McPherson ed il sassofonista
volante o subacqueo Lee Thompson. All’appello, oltre Barson,
mancano Daniel Woodgate (batteria) e Mark Bedford (basso)
ovvero il cuore ritmico della band londinese. Di dieci
tracce del disco ne salvo solo 2: “Nightmare Nightmare” e
“Beat The Bride” unicamente perché, benché non paragonabili a
nulla che i Madness
avevano fatto in precedenza, segnano il “ritorno” di questi
The Madness all’uso di ritmiche del tutto ska/reggae. Anzi, le
salvo proprio solo perché hanno quelle ritmiche, alle quali
partecipa alle tastiere e piano - guarda caso - Jerry Dammers
(e questa è l’ultima sua registrazione di cui ho
conoscenza). A salvare questo disco dalle critiche non
serve neppure che in due brani (“Nail Down The Days” e “What’s
That” del quale ultimo è stato fatto pure un singolo) ci sia
la sezione fiati dei Potato Five all’apice della loro
carriera. Premetto, per rendervi partecipi della dimensione
della delusione che fu per me ascoltarlo la prima volta, che,
quando comprai “The Madness”, ero già a conoscenza di tutta la
discografia del gruppo del quale mi reputavo, a buon diritto,
un ottimo fan e conoscitore. Non so cosa ne pensino i
diretti interessati, ma The Madness è veramente il più brutto
insieme di canzoni che il gruppo (o quanto all’epoca ne
rimaneva) ha messo insieme in tutta la propria
carriera!
Drammatico fu per me, ancora due anni
dopo e, quindi, nel 1990 apprendere da una piccola nota in
quarta di copertina del disco “Crunch!” dei Nutty Boys (Lee
Thompson e Chris Foreman con “guest star” Suggs) la seguente
verità “This work Is dedicated to the good ship madness (1979
– 1989 R.I.P.) and all who sailed in her”. Tragico: The
Madness era stato, quindi, fatale per i Madness! “Crunch”,
album per l’etichetta ska Dojo (della stessa – scomparsa? –
Link Records & Music che aveva le note sussidiarie Skank
Records e Staccato Records) che venne seguito pure da un
singolo che, se non vado errato, si intitolava “Hello Mr.
Policeman”, è un album “Ska” piuttosto particolare che
nell’insieme ricorda molto da vicino i Madness dell’ultimo
criticatissimo album, ma al contempo se ne distacca per le
ritmiche decisamente più ska/rocksteady riscontrabili in ogni
traccia; se “Crunch” fosse uscito col nome dei Madness avrebbe
probabilmente avuto molta più fortuna di quello che ebbe, con
praticamente la sola pubblicità dello “Skinhead Times”, nel
mercato indipendente dello Ska.
Fortunatamente, incoraggiati
dall’ennesima compilation a nome del gruppo (un doppio CD ed
ellepì) dal titolo Divine Madness che ebbe un inaspettato
successo di vendite tra tutti i nostalgici di una generazione,
nel 1992 i Madness si
riuniscono festeggiando l’avvenimento con un megaconcerto a
Madstock, fuori Londra, che resterà famoso negli annali per
aver creato una vera e propria onda sismica. Esce anche un
ottimo live (con tutti i cavalli di battaglia) tratto da quel
fantastico concerto: i Madness erano al massimo
dell’energia, la gente è impazzita e questo spettacolo si è
ripetuto ovunque i Madness, tutti e 7 ognuno
al loro posto, abbiano suonato. Io ebbi il piacere di vederli
a Berna nella cornice di uno dei migliori festival musicali
della confederazione elvetica, con tre carissimi amici e di
cui vi posso mostrare anche delle foto! Nuovi dischi, però,
non se ne vedono, ma quel che è più grave e che non se ne
sentono! Dovrò aspettare fino al 1999 per sapere che è
uscito il nuovo album dei Madness ma io, un po’ per
sfiducia ed un po’ per pigrizia, non sentendone parlare, ho
aspettato l’occasione di ascoltarlo da qualche parte prima di
prenderlo: brani che già conosco o roba techno come quella che
è arrivato a propinare “Suggs” o tipo il famigerato “The
Madness” non ne volevo ascoltare più dai miei
beniamini.
E’ stato nel settembre del 2000 che ho
acquistato, in un megastore, “Wonderful Madness”, a prezzo
scontato, non si sa mai… La sorpresa è stata da subito
gradevolissima: i Madness sono tornati,
tornati discograficamente, con un album tutto di nuove,
ottime, composizioni! Questo ho pensato al primo entusiasmante
ascolto di “Wonderful Madness”. Mi scoccia che anche questo
disco non abbia goduto della pubblicità e diffusione che
avrebbe meritato perché decisamente più bello, più ska, più
nutty di “Mad Not Mad” o di “Keep Moving”. Fin dalla prima
traccia “Lovestruck” Wonderful Madness si rivela essere un
album in cui sembra raccolto tutto il meglio delle influenze,
delle sonorità e delle ritmiche che i Madness sono stati in
grado di sfornare dal 1979 all’89. E ciò è valido, sia che si
tratti di brani non ska come la successiva “Johnny the Horse”
che Ska al 100% come “The Communicator”. Più indietro ho
accennato al particolare reggae qua e là proposto dai Madness, e “4am”,
giustamente quarto brano di un disco che ne contiene altri 7,
benissimo rientra nella categoria, facendoti assaporare
atmosfere e colori di The Rise and The Fall. Se c’è il reggae
madness e c’è anche il loro particolarissimo R&B,
apprezzabile in tutta la loro opera fin dal primo album e qui
riportato alla gloria con una delle tracce più belle di
Wonderful Madness, “The Wizard”.
Ancora Ska di grande effetto, con la
partecipazione straordinaria e passata quasi in silenzio, di
Ian Dury alla voce, è la divertentissima “Drip Fed Fred”, che,
con un bel giro di basso e piano che rotolano ed
accompagnamento ritmico dei fiati in levare è un bello Ska da
pub. Per me è stata un’emozione estremamente piacevole
ascoltare nuove composizioni Ska dai Madness, emozione
accentuata dalla successiva “Going To The Top”, un brano che
fa da link tra “Bad & Breakfast Man” e “Our House”. Ma
certi spunti “non ska” facilmente rintracciabili negli album
Rise and Fall e Keep Moving non sono certo stati abbandonati
dai Madness come
dimostrano le belle “Saturday Night sunday Morning”, “Elysium”
e “No Money” tutte rigorosamente lontane da ritmiche
propriamente ska. La più particolare, che segna anche
nuove influenze ritmiche del gruppo londinese definitivamente
riunito, è comunque la taccia #10, “If I Didn’t Care”, una
canzone dalle atmosfere notturne e dagli accenni
funky. Augurando quindi ai miei carissimi Madness A) di continuare
su questa splendida strada; B) di essere supportati dalla
Virgin adeguatamente e capillarmente; C) di ritornare ad avere
il successo dei primi ’80, attendo, con impazienza, un loro
live milanese ed un degno seguito al loro bellissimo
“Wonderful Madness”…lo Ska ha bisogno di follia!
[qui
puoi leggere il Live dei Madness al London Arena, 2002]
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